Son trent'anni e la ferita è aperta. S'indaga sui moventi già noti, allo stesso Paolo Borsellino, che piangeva la morte annunciata dei cinque ragazzi, suoi angeli custodi. Tutti morti per lui. Tutti morti con lui. Quella domenica, afosa come qualunque altra di luglio, sembrava dovesse passare anonima. Il "sembrava" però si riferisce soltanto a noi, non a chi preparò e maturava meticolosamente il delitto, imbottendo la 126 rossa di tritolo, per incendiare l'inferno. Fu sufficiente infatti, come in un piano di guerra, a sventrare palazzi. Vivevo la mia giornata domenicale nei riti e con la celebrazione battesimale di cinque bambini, notai dopo la circostanza del numero: quanti gli angeli di Borsellino. Alle 17,00 dalla finestra del convento vidi lontana una densa colonna di fumo, pensai ad un incendio, ma fu il cronista in radio che raccontava il misfatto. "Morte annunciata" dallo stesso protagonista, vittima della terribile storia. Dal 23 maggio era rimasto visibilmente scosso il magistrato Borsellino, da quando cioè gli avevano ucciso il miglior confidente e amico, Giovanni Falcone con la moglie e la scorta. Non badarono infatti a spese i criminali, intenzionati a tutto. E saltò l'autostrada. Palermo fu in lutto... e il Parlamento, a camere riunite, si affrettò a darci il presidente Oscar Luigi Scalfaro. Nella ricorrenza del primo mese toccò all'amico Paolo, nell'atrio della Biblioteca comunale, tessere l'elogio di Giovanni. Ma in che clima? La tensione s'affettava e l'atmosfera era greve, come se si aspettasse qualcosa di più tremendo. Tale il sentimento di Paolo, perché il traditore, il "Giuda", come lo chiamò, era a piede libero. Non proferì il nome e, se l'ha scritto, "l'agenda rossa", sua particolare confidente, non si trovò. Né sapremo perciò a chi pensasse. Porterà nella tomba il segreto che crogiola tuttora le Cancellerie giudiziarie di mezzo Mondo. Paolo sapeva, soprattutto dopo la sorte capitata a Giovanni, che presto sarebbe toccato a lui, piangendo dei ragazzi della scorta, anzitempo il destino. Ai funerali nella cattedrale di Palermo presenziarono Scalfaro e Giuliano Amato, allora presidente del Consiglio, oltre l'immancabile cardinale Pappalardo, ormai avvezzo a esequie di servitori dello Stato. La folla era irrequieta e lungo tutto il tragitto dell'accompagnamento dei feretri il dolore era gridato a rabbia. Fui presente alla Messa e concelebrai col mio Vescovo. Or trent'anni e si ritorna a commemorare. Necessario tuttavia far memoria, per seminare speranza, di quella libertà che i martiri a noi hanno dato con la vita. "Ma perché - mi domando - è di lutto ogni nostro ricordo?". Sicilia, Campania, Calabria, non a caso "Magna Grecia" che della originale madre delle tragedie attua i racconti. Stesso l'esito, speculare nell'arte e fatale nella vita, dove a mito l'eterno ritorno si narra a vicenda, in lamento corale e impotente, per il baro destino, con prepotente e immutato dolore.
Fra' Domenico Spatola
Nessun commento:
Posta un commento